Il 15 febbraio del 1944 l’abbazia di Montecassino fu distrutta: un libro suggerì il bombardamento

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Prendere il passo e affrontare il tema  della distruzione dell’abbazia di Montecassino richiede una buona dose di consapevolezza e tanta tenacia nel cogliere anche gli elementi paradossali che hanno coinvolto uomini, storie, eventi e monumenti. Tracciare una linea non deve sembrare in assoluto come la conclusione di una ragione bensì come lo svolgere lento e fluviale di un ragionamento che non si ferma e se ostacolato prende forme differenti. In sostanza vi sono elementi paradossali che appaiono talvolta nella narrazione dei fatti e donano una connotazione alquanto bizzarra a quella che con egoismo intellettuale definiamo la Storia. L’abbazia si trova lungo quella che era una linea di fuoco che fungeva da limite all’avanzata da sud delle forze armate in campo per la liberazione dell’Europa dal nazifascismo. Il legame tra le fabbriche del monastero e le azioni belliche prende forma già nel XIX secolo durante i concitati moti del 1821 che portarono le truppe austriache a combattere nel Regno delle Due Sicilie. In quei giorni dalla zona della porta monumentale e megalitica della spianata di S. Agata furono tolti grossi macigni dalle truppe costituzionali per ostacolare l’avanzata dell’esercito austriaco che stava per riportare sul trono Ferdinando I. I grossi macigni, riferibili anche alle mura poligonali del circuito murario esistente sull’arce della Casinum italica e romana, furono utilizzati per farne fortini. Di fatti il Pantoni ci dice in modo incontrovertibile che «verso la porta d’oriente ove sono le mura ciclopiche, si volle anche continuare la costruzione del muro per i fucilieri. Per ciò  fare non si ebbe ritegno di toliere gran numero di quegli smisurati macigni e precipitarli nel sottostante suolo». La rilevanza  muranea dell’arce e la sua vocazione strategica fu a più riprese sottolineata dagli studi che sostennero con perizia e precisione le origini precristiane delle strutture su cui venne innalzato il complesso monastico di Montecassino. Nel 1879 Dom Giuseppe Quandel, già ingegnere dell’esercito napoletano, provvide alla redazione ed edizione delle piante topografiche del complesso cristiano e delle sue preesistenze. L’attività di ricerca sul monastero e delle primitive fabbriche trovarono nuova spinta negli studi del cardinale Bartolini (1880), dell’ingegner Alinari (1930) e del Carettoni (1940). Ma un libro ebbe, paradossalmente, l’onere della trasmissione di una conoscenza architettonica che portò a giustificare quelle che furono le esecrabili scelte strategiche riguardanti l’atto vile della distruzione del monastero. Nella dichiarazione del generale inglese Francis Tuker, comandante della IV divisione indiana di stanza a Cassino, troviamo queste a parole dal tono crudele: «Dopo essermi dato molto da fare e aver cercato in numerose librerie e bancarelle di Napoli, finalmente ho trovato un libro del 1879 che fornisce diversi dettagli della costruzione del monastero di Montecassino».  Si trattava della Descrizione storica e artistica di Montecassino, un libricino di 284 pagine, scritto da d. Paolo Guillame e stampato dalla Tipografia di Montecassino nel 1879, che riportava un breve saggio storico su Casinum e notizie su S. Germano e Cassino. Il generale Tuker aveva letto su questo libro che le mura del monastero avevano una profondità e consistenza tali da richiedere l’impiego del bombardamento aereo. Il tutto alla vigilia di una decisiva operazione militare, quando il comando alleato si rivolse ai dei rigattieri di Napoli per cercare di conoscere i particolari dell’obiettivo. Fu dunque un libro, stampato dalla stessa tipografia di Montecassino, a chiarire le idee per la conquista del caposaldo orografico posto in dominanza visiva sulla Valle Latina e soprattutto sulla Strada Nazionale 6 “Casilina”. Tra quelle pagine e scorrendo le piante topografiche allegate il generale, che da giorni cercava di avvicinarsi alla zona sacra, trovò la consapevolezza del limite delle forze in campo. Non di meno gli eventi narrati ora assumono una connotazione umana differente donando nomi e facce nuove ai personaggi principali del bombardamento del 15 febbraio 1944. Le truppe in campo, di e per conto degli alleati, erano la conseguenza di decenni di colonialismo e combinazione di storie minori. Gli indiani della IV Divisione risalirono le balze rocciose della collina per appurare a proprie spese che l’area intorno al monastero era ormai sotto la linea di fuoco dei tedeschi. Non si poteva fare altra scelta, dissero o pensarono i soldati. Va bombardata. La scelta della distruzione mediante impiego dell’aviazione non fu ovviamente condivisa da tutti. Tratti di una volontà differente si ritrovano invece nelle parole del generale Walker al quale fu riferito che circa 2.500 civili avevano trovato rifugio nel monastero, ma non vi si scorgevano affatto soldati tedeschi. Nessuna installazione militare atta ad offendere era entro le mura ma alcune si trovavano a più di 200 metri. Il generale Walker annotò nel suo diario: «Questo era un monumento storico di grande valore che avrebbe dovuto essere preservato. I tedeschi non ne facevano uso e non vedo alcuna utilità nella sua distruzione. Non ne trarremo nessun vantaggio dal momento che ora i Tedeschi potranno sfruttare le rovine per ottenere ottimi posti di osservazione e postazioni per armi automatiche. Che i tedeschi avessero usato l’edificio per un posto di osservazione e per delle piazzole di artiglieria ha poca importanza dal momento che la stessa montagna in cui è situato il Monastero può servire allo stesso scopo. Se fossi stato io a dover prendere una decisione, avrei evitato la sua distruzione. In data odierna ho ordinato alla mia artiglieria di non fare fuoco su di esso». Mentre accadeva ciò o stava per concretizzarsi l’idea del bombardamento, una unità affiliata alla divisione di fanteria americana, il 100° battaglione nippo americano definito dei Nisei, l’8 febbraio del 1944 si adoperò alle balze del Colle Janulo occupato dai tedeschi. Erano i figli e i nipoti dei giapponesi residenti negli Stati Uniti che dopo gli eventi di Pearl Arbor del 1941 ebbero le libertà individuali limitate e private. La comunità dei nipponici statunitensi fu internata e privata dei beni e delle proprietà. Ma molti giovani vollero far capire che erano figli dell’America e vollero entrare nelle forze armate americane per combattere il nazifascismo. Nonostante che Eisenhower rifiutasse una loro partecipazione, il generale Clark della V armata fu il solo a volerli sul fronte bellico. L’onore nipponico e la tenacia di questi cittadini reietti dell’America ebbe risalto nelle azioni propedeutiche al bombardamento. Va ricordato il soldato Hisoaka che nonostante si trovasse su campo aperto sotto il tiro dei cecchini tedeschi, si adoperò per salvare il gravemente ferito maggiore Lovel. Hisoaka fu premiato, ma malauguratamente cadde sul campo di battaglia di Anzio. Saranno di nuovo le parole scritte a lasciarci una chiara idea di quanto vissuto prima e dopo il bombardamento a Cassino e sulla costa di Montecassino. Persone apparentemente distanti dai nostri luoghi e dalle nostre origini subirono l’onta della disumanità. Dal resoconto dei reduci Nisei entriamo nel vivo dell’esperienza della guerra di trincea. Dinanzi al loro racconto abbiamo l’obbligo e l’onore del silenzio e della memoria. «Per il 100° e per la 34° Divisione fu la fine della lotta contro tutto e contro tutti, dalle avversità alla forza dell’armata tedesca, durante quaranta giorni. Riposarsi significa trovare riparo dal freddo, da quelle condizioni atmosferiche che avevano congelato i piedi e torturato così tanto i  piedi che solo fare un passo  era un’impresa. I ranghi erano stati sfoltiti, tanto che, se uno era inabile, non ce n’era un altro che potesse sostituirlo: rimaneva un buco, tra le linee, e il suo posto vuoto in trincea». Le ragioni che portarono al bombardamento si svelano dunque tra le righe e le parole scritte o lette da uomini differenti da chi ha visto i luoghi familiari trasformati in suolo e polvere. Nei libri o nei diari vi è la memoria e se vi sarà una risposta sarà paradossale. Senza l’ambizione delle ragioni, al cospetto della inumana prepotenza dei fatti. 

Dante Sacco